E’ una lettera “riservata” quella che Achille Grandi invia a Giuseppe Rapelli il primo aprile del 1926 e che chiama in causa il Papa nell’avanzata del fascismo anche sul terreno del mondo del lavoro.
Ed è anche, per molti versi, una lettera storica per la drammaticità del momento.
Grandi è presidente della Cil, la Confederazione italiana dei lavoratori, che lui stesso ha fondato nel 1918. E’ anche parlamentare del Regno ma, a partire dal 27 giugno 1924, fa parte dei secessionisti dell’Aventino che si astengono dai lavori in aula fino a che i responsabili del rapimento Matteotti non saranno processati. Come sappiamo il 9 novembre 1926 la Camera dei deputati, riaperta per ratificare le leggi eccezionali, delibererà la decadenza dei 123 deputati aventiniani.
Rapelli fa parte, insieme a Grandi e Gronchi, del triumvirato che regge nell’ultimo periodo di vita la Confederazione. Sempre nel 1926 Rapelli dà vita alla rivista “Il Lavoratore” che si caratterizza per le aperture verso le forze laiche e di sinistra in funzione antifascista.
Il 2 ottobre 1925 il patto di palazzo Vidoni, tra la Confindustria e la Confederazione delle corporazioni fasciste, elimina il sindacato libero e dunque priva anche la Cil di ogni funzione a favore dei sindacati fascisti. La legge sindacale Rocco del 3 aprile 1926 sopprime il diritto di sciopero e di organizzazione, riconoscendo personalità giuridica e rappresentatività a un unico sindacato di lavoratori e di datori di lavoro per ogni categoria, che deve dar prova di “sicura fede nazionale”.
Ma Grandi lotta strenuamente per mettere in guardia la Gerarchia, anche per tramite dell’Azione Cattolica, dai rischi che l’ideologia fascista pone sul futuro della democrazia anche nel mondo del lavoro.
Grandi è agguerrito: “La sua lettera mi addolora, non tanto per ciò che mi riferisce di P. Balduzzi. Quest’uomo è seccato perché siamo stati costretti a descriverlo, con molta parsimonia, nelle sue contraddizioni. Non credo che a Roma si avrà voglia di seriamente tentare una confutazione della mia relazione. Non ho detto che una minima parte (anzi l’ultima) di tutta una documentazione triennale che ho con me, e che non sono disposto a tacere per un malinteso senso di disciplina”.
Padre Giovanni Balduzzi, al centro della polemica, è nella Giunta centrale di Azione Cattolica ed è segretario generale dell’Icas, l’Istituto cattolico di attività sociale, che si è costituito nella primavera del 1925 proprio per iniziativa dell’Ac.
L’idea di Papa Pio XI è chiara: dopo aver preso le distanze dal Partito Popolare, abbandonare anche l’esperienza della Cil e governare direttamente il rapporto con il regime fascista. Non a caso, già nel dicembre 1925, l’Azione Cattolica invita i lavoratori aderenti ad abbandonare il sindacato bianco e ad entrare nel sindacato fascista.
Conseguentemente viene scemando l’aiuto economico che la Cil riceve dall’Ac. Sarà personalmente Grandi, alla chiusura della Cil alla fine del 1926 (prima della pubblicazione ufficiale del decreto del governo fascista), a pagare di tasca propria le ventimila lire di pendenze lasciate dalla Confederazione nell’ultimo anno.
Fra l’Ac e il fascismo si realizza quello che viene definito “un rapporto di collaborazione nella distinzione” e Grandi non riesce a farsene una ragione, tanto da spingersi a pensare che al Papa non arrivino tutte le informazioni: “È vero, invece, che la nostra relazione sembra non sia arrivata al S. Padre, ma abbia seguito le vie burocratiche di M.r Pizzardo e dell’A.C., e ciò mi conferma nel ritenere che il S. Padre non è esattamente informato del vero stato delle cose, non per colpa nostra certamente!”.
Proprio su questa convinzione, Grandi fonda un’azione di dissenso profondo con l’Azione Cattolica che, se in altra corrispondenza ha toni accesi, qui viene contenuto: ”Sono anch’io del parere che per ora non convenga accentuare il dissidio coll’A.C., ma mi persuado sempre più che non ci convenga demordere dalla posizione presa. Me ne convince anche la recente polemica dell’Osservatore Romano coll’Avanti. La mozione che le ho trasmessa deve però servire a dimostrare ai nostri amici, ed all’A.C., che se si vuole c’è molto ancora da fare. — Ne faremo un uso riservato. – Ma può servire d’indirizzo ai nostri amici che scrivono su giornali e riviste anche perché non accentua dissensi coll’A.C., ma ne separa le responsabilità”.
Separare le responsabilità perché non vengano tutti i cattolici ritenuti conniventi con la nefasta avanzata del fascismo. Come Grandi aveva scritto in una lettera a Rapelli nel febbraio del 1926 “Iddio, la Storia e il Popolo giudicheranno a suo tempo”.
Sappiamo poi quanto i fatti del 1931, con la chiusura de i circoli giovanili dell’Azione Cattolica e le violenze nei confronti degli iscritti all’Ac, diedero ragione a Grandi ma soprattutto costarono alla Chiesa italiana, aprendo una stagione giocata tutta in difesa e densa di rinunce e sacrifici.
La lettera di Grandi a Rapelli contiene un’ulteriori punta di acredine. Rapelli, che come Grandi si trova sempre più isolato anche nel suo mondo, è stato licenziato da “Il Corriere” di Torino, ufficialmente per un taglio di spese. Vorrebbe aprire una vertenza ma l’Associazione Stampa Subalpina, già divenuta sindacato fascista, si rifiuta di difenderlo. Grandi è durissimo: “Apprendo invece con maggiore dolore e tristezza il suo licenziamento dal «Corriere». Questi cattolici… ufficiali hanno un metodo… cristiano davvero sintomatico! Ma il Signore li ripagherà a suo tempo, perché tanti sacrifici e tanta nostra buona volontà non vadano del tutto dispersi”.
La lettera si chiude con un pensiero personale che mitiga i toni e ci restituisce un Grandi attento alla persona. Il 14 aprile, quindi a pochi giorni dalla missiva, Rapelli si sposerà con una sua “organizzata” dell’Unione del Lavoro di Torino, l’operaia tessile Margherita Rina Vaula. Pur nel tono di malumore della lettera, Grandi non dimentica l’evento: “Le faccio anche i migliori auguri e voti per il suo prossimo matrimonio che Iddio benedirà colle Sue più elette grazie”.