La storia del breve mandato del presidente nazionale delle Acli Ugo Piazzi, nei primi anni ’60, è forse breve ma complessa.
Gli anni Cinquanta delle Acli non hanno ancora visto spegnersi gli echi della grande manifestazione del decennale che già vedono profilarsi la nube minacciosa delle polemiche sulla incompatibilità tra le cariche dirigenziali acliste e quelle parlamentari.
Ad accendere la miccia, il 30 novembre 1959, alla vigilia del Congresso di Milano, è il cardinale Giuseppe Siri, presidente della Cei, con una lettera inviata all’assistente ecclesiastico centrale delle Acli monsignor Santo Quadri. Il documento contiene “alcune richieste e norme” della gerarchia all’associazione. Tra queste, non casualmente prima del congresso, figura il punto in cui “i vescovi ritengono debba affermarsi chiaramente il principio dell’incompatibilità”.
Il Congresso di Milano del 5-8 dicembre, col peso di cotanta raccomandazione, approva quasi unanimemente, con voto palese, il principio della incompatibilità parlamentare. Ma con una successiva sibillina votazione a scrutinio segreto approva anche la possibilità di “deroga” con delibera del Consiglio nazionale. A spuntarla è dunque la linea del presidente nazionale Dino Penazzato contro quella di Livio Labor, convinto della inderogabile incompatibilità.
Penazzato nella prima riunione del Consiglio nazionale, il 3 gennaio 1960, si trova dunque, proponendo la propria riconferma a presidente, a dover chiedere per sé l’applicazione della deroga congressuale. Ancora una volta ad opporsi è Labor, che però viene nuovamente sconfitto per 36 voti contro 24.
Ma Penazzato fa i conti senza l’autorevolissimo “oste” d’oltretevere, che mal ha digerito la furbizia congressuale della doppia votazione con doppio metodo.
I segnali arrivano forti e chiari, tra l’altro in una situazione in cui le Acli si sono davvero spaccate con il rifiuto di Labor ad entrare nella presidenza nazionale. Penazzato, incalzato dalla Cei, non può fare altro che dimettersi optando per il seggio parlamentare.
Nel Consiglio nazionale del 10 aprile 1960 si vota di nuovo. Il gruppo di Labor candida a presidente delle Acli Vittorio Pozzar mentre il gruppo di Penazzato punta su Ugo Piazzi. Alla conta prevale Piazzi: 32 voti contro 31.
Ugo Piazzi diventa così il terzo presidente nazionale delle Acli dopo Storchi e Penazzato (escludendo il fondatore Achille Grandi).
La presidenza Piazzi è ormai unanimemente riconosciuta come di transizione, fosse solo per il breve periodo in cui rimane in carica: al congresso nazionale delle Acli di Bari Ugo Piazzi verrà sconfitto da Livio Labor ed il suo mandato finirà il 10 dicembre 1961, dopo soli 20 mesi.
Si è già scritto di una sua attenzione alla qualità della vita, ai problemi delle periferie, ai consumi familiari e, in generale, ai temi concreti della vita delle persone: il suo impegno era all’insegna di “un bagno di realtà”. Ma è evidente che di quell’anno e mezzo rimane poco nella storia delle Acli se non le manifestazioni per il 70° anniversario della Rerum Novarum e l’udienza di Papa Giovanni XXIII in piazza San Pietro.
Meno conosciuta è però la storia personale di Ugo Piazzi che, fino al momento della candidatura da parte di Penazzato, non ha certo ricoperto ruoli significativi nell’associazione.
A portarlo alle Acli è proprio Dino Penazzato nell’ottobre del 1946: “Incontrai nel dopoguerra – scrive in un diario redatto negli anni ‘90 – per caso il mio dirigente della Federazione Universitaria Cattolica che, conoscendomi come uno dei “fucini” picchiati negli scontri del ’31 nel conflitto tra Pnf ed associazionismo cattolico, mi valorizzerà nelle Acli fino a portarmi alla presidenza nazionale, con conseguente successiva elezione da parte del Parlamento a giudice aggregato alla Corte Costituzionale”.
Il riferimento alla lotta alle organizzazioni cattoliche del Partito nazionale fascista non è casuale. Perché poco dopo essere stato picchiato, appena laureato in legge, Piazzi si converte al fascismo “non per paura – scrive nel suo diario – ma per ambizione. Ognuno ha il suo debole, il mio è questo”.
Ad orientarlo è anche una educazione improntata alla patria, al valore ed all’eroismo: “La mia fantasia bambina – sono ancora parole del suo diario – si nutriva di eroi che morivano immancabilmente al grido di “Viva l’Italia”, o, in via subordinata, di “Viva il re!” Impazzivo per la fanfara dei bersaglieri, piangevo quando passava la bandiera. Detestavo i disfattisti e gli imboscati”.
L’adesione al fascismo ha un che di entusiastico. Dopo l’incidente di Ual Ual, ingigantito dalla propaganda fascista, che ormai da anni stava preparando l’invasione dell’Etiopia, il giovane Piazzi contribuisce a suonare la grancassa di regime: “Se i nostri nonni hanno fatto l’unità, — scrive su “Conquiste” nel luglio del 1935 — se i nostri padri l’hanno completata e perfezionata, noi, giovani, sentiamo che il comandamento che a noi vien dato dal destino, la nostra parte di fatica nell’opera grandiosa del risorgimento d’Italia, la missione storica della nostra generazione è questa: espansione”.
Scriverà dopo la guerra: “Non c’è dubbio che io sia stato uno di quei giovani che nutriti di studi classici, hanno creduto al mito del popolo di santi e di eroi, della grandezza della patria, del diritto al posto al sole, della vittoria mutilata, della composizione dei conflitti di classe attraverso il corporativismo e via discorrendo. Non c’è dubbio però che parte della mia benevolenza verso il defunto regime sia dovuta ai benefici che esso mi ha assicurato. Sono tra quelli che il regime ha aiutato a risolvere problemi familiari e personali: casa in proprietà attraverso una cooperativa di impiegati statali, alleggerimento delle tasse scolastiche come famiglia numerosa. E poi rapida sistemazione con conseguente possibilità di aiuto a mio padre, brillante carriera nella promettente struttura corporativa, ambiti riconoscimenti militari, esperienze altamente gratificanti, specie per un carrierista come me”.
Tra le esperienze gratificanti di cui conserva il ricordo, durante l’impiego nella Confederazione fascista degli Agricoltori, figura il ruolo di capodelegazione durante un viaggio studio in Germania nel 1938 che gli permette l’incontro con il vice di Hitler, Rudolf Hess; “Alto, distinto, curatissimo nella persona e nella divisa, attraversa il giardino, ci vede, ci viene incontro, ci augura buon lavoro. E, cosa ben più importante per me, si fa fotografare con noi”. E facile immaginare quanto quella foto sia stata esposta in bella vista fino al settembre del 1943.
L’ambizione lo spinge però a cercare riconoscimenti nell’azione militare. Dopo due chiamate in servizio senza partenza per il fronte, chiede di andare volontario in guerra il giorno delle dimissioni di Badoglio, il 4 dicembre 1940: “Mi sembra che un buon cittadino debba farsi avanti quando le cose vanno male. E le dimissioni di Badoglio, il cui opportunismo è noto, significa che le cose vanno assai male. La mia domanda viene accolta con sorprendente rapidità”.
Viene destinato allo sfortunato fronte greco – albanese dove la situazione è drammatica: “Al comando mi spiegano che il reggimento è qui in ricostituzione essendo rimasto semidistrutto nella ritirata. È stato spedito in Albania precipitosamente, attorno a Natale, trasferito a pezzi, buttato a ricucire il fronte rotto in più punti dopo la prima avanzata. E ricacciato indietro nel momento dello sfascio, del caos. Ha perduto gran parte della truppa ed un gran numero dei suoi ufficiali”.
Durante una licenza in Italia frequenta i corsi dell’Istituto superiore guerra e consegue i gradi di capitano. Con il nuovo grado viene infine destinato al Comando delle truppe italiane a Creta nel giugno 1943. Lì lo raggiunge la notizia dell’armistizio dell’8 settembre, di fronte al quale sceglie di schierarsi a fianco dei tedeschi e di aderire alla Repubblica Sociale Italiana di Mussolini “per motivi di onore nazionale e in quanto responsabile […] di novecento italiani inquadrati nella mia unità”.
“Quando è scoppiato l’armistizio, realizzato in modo cosi ignobile – commenta Piazzi parlando di sé in terza persona – l’italiano modello 1912, soldato da sette anni, ha subito una ferita psicologica profonda e bruciante, che brucia ancor oggi. Era inconcepibile per lui perdere la guerra in cui aveva investito gli anni migliori della una giovinezza, in cui aveva visto cadere tanti suoi coetanei. Era un tradimento verso i morti. Ed era atroce perderla in modo cosi vergognoso per gente vissuta per anni nella convinzione di essere eredi della grandezza e della gloria di Roma”.
La guerra come momento eroico e romantico è un tema che appartiene sia al Piazzi giovane che all’adulto: “E’ difficile oggi capire la mentalità di un giovane di allora, nato come me intorno al 1912, e cresciuto, dai dieci anni in poi nel clima fascista. E difficile perché oggi la guerra è stata spogliata dalla sua aureola gloriosa del passato. Il suo mito si è consumato e dissolto: gli orribili massacri di massa, la distruzione del confine tra prima linea e popolazione civile – che ha strappato al maschio il monopolio del martirio -, la bomba atomica, hanno oscurato gli aspetti nobili del conflitto, hanno spento lo spirito di crociata delle guerre precedenti, ne hanno dato una visione più realistica, più repellente, hanno provocato un senso di impotenza, di repulsione, di dissuasione. Sono crollati anche miti e simboli ispirati al culto della nazione”.
Dopo l’armistizio il capitano Piazzi deve arrendersi agli inglesi il 5 maggio 1945 mentre difende la testa di sbarco di La Canea. Rientrato in Italia il 1 aprile 1946 viene consegnato dalle autorità militari inglesi a quelle italiane.
Il suo rientro nella società italiana del dopoguerra non sembra avere nulla di traumatico e non passa da una sconfessione del passato. Nel suo diario svolge qualche riflessione ma l’autoassoluzione sembra essere sempre la chiave di volta dei testi: “Sono stato fascista o no? Certo ho portato la camicia nera. Forzatamente, all’inizio, da avanguardista. Poi per conformismo, adattamento all’ambiente e alle sue opportunità da giovane fascista, milite universitario, corporativista. Infine in guerra con profonda convinzione trattandosi di servizio alla patria. Senza dubbio non mi sono mai ribellato al regime, ne ho condiviso in larga parte gli ideali perché il fascismo era anche nazionalismo ed io ho ricevuto una educazione nazionalistica dalla famiglia e dalla società fascista. Certo, in parte sono stato vittima di quella massiccia campagna di persuasione cui solo una ristrettissima minoranza di italiani poteva sottrarsi”.
L’incontro con Penazzato, sorprendentemente, conduce Ugo Piazzi senza problemi nell’immediato dopoguerra alle Acli per un impiego come responsabile dei gruppi di fabbrica e poi sul versante sindacale, in cui si specializza. Suoi alcuni testi fondamentali di tecnica sindacale utilizzati nei corsi di formazione dell’associazione: quello del 1950 sullo sciopero nella “Biblioteca del lavoratore”, “Il rispetto delle leggi sul lavoro” del 1957, “Appunti di tecnica sindacale” del 1959.
Il 20 marzo del 1953 sposa Altobella Brigante Colonna dei conti Angelini, vedova di un tenente pilota in servizio permanente effettivo, volontario in Spagna nel 1939 nella guerra contro il comunismo e pluridecorato nella seconda guerra mondiale per l’azione militare in Africa. Il padre di Altobella, il conte Guido, primario ospedaliero, era stato Podestà di Tivoli. Siamo ancora nell’ambito di una borghesia nera.
Sul versante politico interno, Piazzi resta fuori dagli organismi delle Acli fino al 1955 quando viene eletto per la prima volta in consiglio nazionale. Sempre in quell’anno viene nominato commissario e poi eletto presidente delle Acli di Roma mentre nel 1957 diviene presidente regionale delle Acli del Lazio.
Quando Penazzato, messo all’angolo dalla Chiesa nella vicenda dell’incompatibilità, lo candida come suo successore è cosciente di porre alla guida delle Acli una persona dalle grandi ambizioni ma con scarso spessore politico. Probabilmente l’idea è quella di poter continuare ad esercitare un ruolo di indirizzo e guida anche con i piedi fuori dalla presidenza nazionale, soprattutto nei rapporti con la politica. Basti dire che Ugo Piazzi non è iscritto alla Dc e dunque non occupa nemmeno il posto riservato al presidente nazionale delle Acli nel consiglio nazionale del partito.
Ma la grande inesperienza di Piazzi e la sua scarsa conoscenza dell’associazione lo mettono in navigazione a vista in acque molto agitate. La prima ondata lo travolge già con la nascita del Governo Tambroni, che ha il via libera a fine aprile del 1960 con l’appoggio del Movimento Sociale Italiano e sulle proteste che, partite a fine giugno da Genova contro la convocazione del congresso del Msi, dilagano in tutta Italia. Le Acli sono timidissime e la posizione di Ugo Piazzi, appena eletto, diventa ben presto imbarazzante malgrado qualche iniziativa di moral suasion messa sicuramente in atto da Penazzato. Ma mentre l’ex presidente guarda a quello che accade giustamente in chiave politica e si oppone al rapporto tra missini e Dc, Piazzi giudica solo i fatti di Genova e, anche su questi ha una posizione discutibile: accusa la Cgil di infiammare il clima, di mettere a rischio l’ordine pubblico e di minacciare l’autorità del Governo. Sul fatto politico, che segnerà la storia repubblicana e porterà al monocolore Dc di Fanfani, il presidente delle Acli fatica ad esprimere considerazioni.
Quella vicenda, anche nella ricostruzione storica delle Acli più autorevole di Domenico Rosati, non è mai stata messa in collegamento con i trascorsi fascisti di Ugo Piazzi. Certamente siamo a 15 anni dalla fine della guerra ed il neo presidente delle Acli ha maturato un distacco (anche se non una rinnegazione) da quella sua nefasta appartenenza: c’è dunque da pensare che il problema di prendere posizione non fosse legato al rapporto con il partito erede del fascismo. Ma influisce invece sicuramente quella impostazione ideologica che aveva portato il giovane Ugo ad indossare la camicia nera e poi ad andare in guerra e poi ancora ad aderire alla Repubblica di Salò: i temi, gli argomenti ed i riferimenti valoriali che ritroviamo insomma nel suo diario.
A mostrare tutti i limiti politici di Piazzi ci penserà Livio Labor con la rivista Moc, attorno a cui si coagula tutta l’opposizione aclista. E’ evidente che Labor spinge questa iniziativa ben oltre quello che al tempo si reputava possibile: per la prima volta nella storia delle Acli esce un periodico di una “corrente” interna con una proposta di programmi e di classe dirigente alternativi a quelli esistenti. Non solo: con una rubrica di notizie, la rivista non solo attacca ma anche sbeffeggia il gruppo dirigente in carica ironizzando su ogni gaffe e scivolone dei singoli uomini.
Piazzi, si perdoni il calembour, è spiazzato. La sua carente politicità lo spinge verso toni rivendicativi dell’autorità e minacce di provvedimenti disciplinari che, soprattutto in quel momento, non fanno alcuna impressione e, soprattutto, nessun effetto. Basti pensare che la guerra al Moc si chiude con l’artifizio di intestare l’edizione della pubblicazione ad una sede provinciale delle Acli invece che al gruppo laboriano.
Di lì a poco la rivista cesserà le pubblicazioni perché Labor vincerà il congresso di Bari del dicembre 1961 e diventerà il quarto presidente nazionale delle Acli. Con lui, dopo questa breve e tormentata pausa, le Acli riprenderanno il volo.